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Il treno merci delle 6:40 annunciò puntuale che la
notte era finita. Quel mostro di ferro inquietante lo si udiva fischiare
lontano prima che giungesse a violentare il silenzio della valle. Dopo aver
fatto tremare le vecchie case di Porto, rilasciava dietro di sè un eco compatto
che moriva serpeggiando sotto le prime luci dell’alba.
Amalia Vallardi lo ascoltò svanire del tutto, allungò
la mano e accese l’abatjour. Era un gesto abitudinario, elegante e antico come
i tratti della bellezza che il tempo non le offuscava. Fece scivolare le gambe
dal letto e vi rimase seduta a recuperare le forze prima di rimettersi in
piedi e imbracciare le stampelle.
Uscita dalla stanza prese posto sulla carrozzina che s’imponeva di lasciare nel corridoio quasi a sfidare quel maledetto destino indegno. Il volto era una maschera tesa su uno sguardo senza orizzonte, lo sguardo di chi attende che la morte venga a salvargli la vita. Lasciò cadere le stampelle e spingendosi sulle ruote raggiunse l’ascensore. Lo aveva fatto costruire per sé, col cancelletto e i comandi alla giusta altezza. Iniziò la discesa e riapparve nella grande sala da pranzo dove c’era la veranda che dava sul lago e di fronte alla quale si fermò. Quello che si godeva era lo spettacolo dell’orizzonte tinto del giallo ocra di foglie ormai cadenti. Era la luce fredda delle mattine d’autunno striata dal volo pulito dei gabbiani. Presto la bruma si sarebbe dissolta lasciando che il sole si riflettesse nuovamente sull’immenso specchio d’acqua.
Uscita dalla stanza prese posto sulla carrozzina che s’imponeva di lasciare nel corridoio quasi a sfidare quel maledetto destino indegno. Il volto era una maschera tesa su uno sguardo senza orizzonte, lo sguardo di chi attende che la morte venga a salvargli la vita. Lasciò cadere le stampelle e spingendosi sulle ruote raggiunse l’ascensore. Lo aveva fatto costruire per sé, col cancelletto e i comandi alla giusta altezza. Iniziò la discesa e riapparve nella grande sala da pranzo dove c’era la veranda che dava sul lago e di fronte alla quale si fermò. Quello che si godeva era lo spettacolo dell’orizzonte tinto del giallo ocra di foglie ormai cadenti. Era la luce fredda delle mattine d’autunno striata dal volo pulito dei gabbiani. Presto la bruma si sarebbe dissolta lasciando che il sole si riflettesse nuovamente sull’immenso specchio d’acqua.
Nuccia, la governante della casa da più di trent’anni,
arrivò col carrello della colazione. La sua padrona detestava le parole disgiunte
pronunciate di primo mattino e nel rispetto del silenzio pose sul tavolo il
servizio di porcellana, un assortimento di tè pregiati e i biscotti,
rigorosamente fatti da lei.
Dalla teiera si scatenò un profumo bollente di Darjeeling
nero e Amalia vi avvicinò le mani
per riscaldarsele. Là fuori la luce azzurra sfumava in un tenue rosa pesca e
lentamente si riscaldava anche l’inizio di quel giorno nuovo.
Marco Marcuzzi
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